Prima ancora del fumetto... "Our Planet", dove tutto è iniziato

Pubblicato il 5 dicembre 2025 alle ore 22:18

La comunicazione visiva, combinata a testi incisivi, può esercitare un impatto straordinario sul pubblico: può avvicinare, coinvolgere e scuotere, ma anche generare distanza o rifiuto. 

La prima riflessione all’origine di Climate Comics è nata nel salotto di casa, osservando la reazione di un bambino di undici anni — grande appassionato di scienze naturali — di fronte ad alcune sequenze del secondo episodio della prima serie di Our Planet (Netflix). Dopo lo sgomento iniziale e una forte reazione emotiva, è seguito un lungo periodo di rifiuto verso l'argomento dell’impatto antropico sul clima, ovunque se ne parlasse. 

Eppure la serie portava un rating 7+, e in casa si era riposta piena fiducia sia nella qualità straordinaria delle immagini — frutto di una produzione ad altissimo budget — sia nella narrazione dell’edizione originale, affidata alla voce autorevole dell’inossidabile David Attenborough. Del resto, quanti italiani della generazione X sono cresciuti guardando con ammirazione i documentari della BBC all'interno le trasmissioni di Piero Angela? 

Si era arrivati al secondo episodio di Our Planet, dove compare una delle sequenze più sconvolgenti dell’intera serie: decine, forse centinaia di trichechi si arrampicano fino in cima a ripide scogliere, spinti dalla mancanza del ghiaccio marino e dal bisogno di tornare al mare. Disorientati, molti di loro precipitano nel vuoto, morendo sulle rocce sottostanti.
Sono scene durissime, che mostrano non solo gli effetti del riscaldamento globale sul comportamento animale, ma anche che cosa accade quando lo spazio vitale si restringe fino a diventare insufficiente—per una popolazione animale o, per estensione, per noi esseri umani.

L’ultima puntata della serie (per gli adulti di casa che hanno proseguito) portava ancora oltre il discorso mostrando, nelle foreste che circondano Chernobyl, la “incredibile ricolonizzazione” della zona contaminata: animali e piante tornano a prosperare proprio dove noi esseri umani abbiamo dovuto ritirarci. Il commento lo esplicita: “scacciandoci”, le radiazioni hanno (finalmente?) lasciato spazio alla fauna selvatica.
Quel “noi” è inequivocabile: il genere umano come forza perturbatrice e distruttiva, messo a confronto con la potenza rigenerativa della natura che avanza tra palazzi abbandonati e boschi che inghiottono l’asfalto. Gli scenari del post-umano incantano lo sguardo.

Eccoci giunti al punto: la prima stagione di Our Planet è un’esperienza insieme magnifica e devastante, capace di farti passare dall’estasi al pugno nello stomaco in pochi istanti. È però anche una visione molto impegnativa, soprattutto per un pubblico classificato come 7+, che difficilmente può sostenere l’impatto emotivo e tematico di sequenze tanto forti. 

Va però precisato che questa scelta — mostrare senza filtri anche gli aspetti più crudi — nasce da un intento preciso e affatto ingenuo, ovviamente: superare la tradizionale distinzione tra documentari ambientalisti espliciti e produzioni più rassicuranti pensate per le famiglie. Si è trattato, a tutti gli effetti, di un esperimento che ha suscitato non poche critiche. Per questa ragione, al momento del lancio, la serie è stata accompagnata da proiezioni pubbliche, dibattiti, materiali di approfondimento online e pagine interattive intitolate “Cosa posso fare?”.

Nonostante ciò, i dati raccolti dall’emittente hanno mostrato che molte famiglie, soprattutto con figli, hanno abbandonato rapidamente la visione, colpite dal turbamento dei più giovani. La nostra esperienza personale è stata tutt'altro che un caso isolato. La serie è diventata poi oggetto di analisi in diverse ricerche accademiche internazionali.

Non tutti possono contare sulle risorse di un grande broadcaster, ma - con molti, molti scrupoli in più rispetto al target - è nata un'idea: perché non indagare, in altri contesti, come i ragazzi recepiscano davvero le narrazioni sul clima? 

Aggiungi commento

Commenti

Non ci sono ancora commenti.